Spotlight on... la mia rubrica dedicata agli autori italiani emergenti o autopubblicati
In questo appuntamento con la rubrica Spotlight on... vorrei parlarvi di un romanzo che già dal titolo si preannuncia divertente e romantico come pochi: NON UN ROMANZO EROTICO di Silvia Pillin.
Dopo essere stato precedentemente pubblicato presso un piccolo editore, NON UN ROMANZO EROTICO torna in una nuova edizione (questa volta autopubblicata!) ampliata e ancora più romantica e divertente.
Per promuovere questa nuova versione, il romanzo sarà in promozione dal 30 maggio - giorno dell'uscita - fino al 3 giugno. Correte a leggerlo !!!
Informazioni e trama
NON UN ROMANZO EROTICO di Silvia Pillin
Romanzo ⭒ autopubblicato ⭒
⭒ genere: chick-lit ⭒ Pagine: 160 ⭒
Disponibile dal 30 maggio 2017
⭒ Scaricabile gratuitamente dal 30 maggio al 3 giugno ⭒
SINOSSI: Ester e Adele sono sorelle come il diavolo e l'acqua santa.
Ester è chiusa in se stessa e nel suo monolocale a tradurre romanzi erotici con grande sforzo: non si capacita di come i protagonisti di quei romanzi riescano a incastrarsi come contorsionisti in assenza di gravità. Adele è aperta alla vita e all'amore in modo incondizionato e privo di barriere. Crede che amare se stessi in modo gioioso ed equilibrato serva per farsi amare allo stesso modo.
Riuscirà Ester a lasciarsi curare dai baci-cerotto di Alessio, il caporedattore di cui è innamorata?
E Adele, come reagirà di fronte alle conseguenze del suo amore gioioso?
COSA DICONO I LETTORI
"Un libro delizioso e divertente, che si legge tutto d'un fiato grazie anche allo stile fluido e ironico
dell'autrice e che ride e ci fa ridere di ogni cliché." Mirya
"Una lettura davvero piacevole e scorrevole, si legge tutto d'un fiato e ridi che è un piacere." heijey
"Romanzo gradevolissimo, avvincente, divertente." Katja
"Una storia da leggere tutta d'un fiato!" Arianna Ciancaleoni
“La sua bocca divora la mia e mentre sento la sua erezione crescere contro di me, le sue mani si
insinuano tra le mie cosce, a sfiorare il mio ses”.
È a questo punto che sento squillare il telefono. Il mio cellulare emette suoni una media di due volte a settimana. E una delle due è per segnalare la batteria scarica. Il 90% delle volte non so nemmeno dove sia il Nokia modello antidiluviano, avuto in dono da mia nonna quando ha deciso di comprarsi un affare col touch screen. La mia scarsa vita sociale passa attraverso il computer: mail, social network. Persino mia madre ha capito che è meglio chiamarmi con Skype.
Trovo il telefono sotto un cuscino del divano-letto, sul display compare la scritta “mia sorella Adele”. Premessa, io voglio un mucchio di bene a mia sorella, ma il bene che le voglio è direttamente proporzionale al numero di chilometri che ci separano. Siamo un po’ come il diavolo e l’acqua santa. Nella fattispecie io sarei il diavolo: non prego, non mi confesso, non vado più a messa da quando ho fatto la cresima, non faccio volontariato (a meno che tradurre per il compenso a forfait che ho accettato, e che mi vergogno persino di dire, non rientri nel volontariato, in quel caso, sì, di recente sono così disperata che ho iniziato a fare volontariato), ho vissuto nel peccato per anni (fino a due mesi fa, quando Iacopo mi ha lasciata). Lei invece lavora con i disabili, frequenta la parrocchia, intreccia braccialetti da rivendere ai mercatini per raccogliere fondi per le missioni in Kenya, crede alla castità prematrimoniale con la stessa cieca convinzione con cui io credevo a Babbo Natale quando avevo quattro anni.
Quando rispondo arriva subito al sodo: - Non è che potresti ospitarmi per qualche giorno? Mamma da quando è tornata da Medjugorje sembra una pazza invasata, non ce la faccio più. Oltre la sua voce si sentono i suoni di notifica dell’arrivo di chissà quali e quanti messaggi o chiamate. Adele ha il carisma e la vita sociale di una diva di Hollywood: tutti la cercano, tutti la adorano, tutti la vogliono.
- Sì, l’ho sentita su Skype qualche giorno fa. Si è messa a piangere, diceva che ha tanto pregato per me.
Rispondo concentrandomi sulla seconda parte della frase, sperando che dimentichi il motivo per cui ha chiamato.
- Okay, allora tra poco sono da te - taglia corto.
- Ehi, il sì era per “mamma sembra una pazza” non per “potresti ospitarmi” - dico, dopo che lei ha già riattaccato.
Quando Iacopo mi ha lasciata avevo tre possibilità: tornare a vivere dai miei, cercare un appartamento in condivisione con altra gente oppure trovare l’appartamento più economico possibile. Quando vivi fuori casa da dieci anni, tornare da mamma e papà è fuori discussione, soprattutto se sono degli integralisti cattolici. Piuttosto un ponte, ti dici, ma anche il pensiero di dividere il bagno con dei perfetti sconosciuti non è per nulla allettante. È così che sono finita in questo monolocale minuscolo e scalcagnato in cui non ho mai avuto il coraggio di invitare nessuno. Non che sia brutto, è solo diversamente grande e diversamente comodo, cioè non c’è posto per metterci niente, è già tanto se ci stiamo io e il mio computer. I miei libri, purtroppo, sono dovuti andare a vivere dai miei.
Ributto il telefono sul divano e già che sono in piedi ne approfitto per bere un bicchiere d’acqua.
Sto per tornare alla mia traduzione quando suona il campanello. Abito qui solo da due mesi, e il campanello non è mai suonato. Non so nemmeno distinguere il suono del campanello della porta di casa da quello del portone. Guardo dallo spioncino e non vedo nessuno sul pianerottolo, per cui deduco che stiano suonando sotto, e se stanno suonando sotto è sicuramente qualcuno che ha sbagliato campanello. No, evidentemente è proprio me che vogliono, perché il trillo riprende più lungo e insistente. Mi arrendo a rispondere: - Chi è?
- Sono io, Adele. Apri.
Ma che è, il teletrasporto? Possibile sia già arrivata?
Mi metto a spostare scarpe e sacchetti nella vana speranza di rendere la stanza più ordinata. Mi passo una mano tra i capelli e realizzo di essere io quella impresentabile.
- Santo cielo, come sei ridotta? - mi saluta Adele. Ha accanto una valigia grande come quella in cui io sono riuscita a far stare tutti i miei vestiti, sia estivi che invernali. Le arriva alla vita, anche se c’è da dire che è alta solo un metro e cinquantacinque. Ci abbracciamo piuttosto goffamente, poi indietreggio per farla entrare, e quando si richiude la porta alle spalle lo spazio calpestabile è esaurito. Facciamo una sorta di balletto per riuscire a destreggiarci.
- Santo cielo, ma che piccolo. E io dove dormo?
- Eh, appunto.
Butta la giacca sul divano-letto e si guarda in giro mentre io resto immobile. Si avvicina al computer e inizia a fissare lo schermo. Poi legge ad alta voce: - Le sue mani si insinuano tra le mie
cosce, a sfiorare il mio ses? Che roba è?
- Sto traducendo un romanzo dall’inglese.
- E da quando sai abbastanza inglese da tradurre?
- Da quando non mi passano abbastanza revisioni e correzioni di bozze per pagarci l’affitto. E poi non è mica Joyce. Se invento quando non capisco, posso solo migliorare l’originale.
- In effetti. Senti, io stasera esco, non so a che ora torno, ma se mi lasci le chiavi cerco di non svegliarti.
- Sì, certo, molto probabile, dato che io dormirò al primo piano ala nord e tu avrai a disposizione il
secondo piano dell’ala sud.
- Se vuoi, puoi venire anche tu. Certo che... in quello stato! Da quanti giorni è che non esci di casa?
Mia sorella ha ragione, sono tre giorni che non tolgo il pigiama. Ho i capelli così unti che sembrano bagnati, in frigo ci sono solo una carota raggrinzita, uno yogurt scaduto la settimana scorsa, e una confezione di tortellini già aperta. Negli ultimi giorni sono sopravvissuta a riso o pasta al burro (che
poi è finito), sofficini buttati nel microonde, fette di pane bianco in cassetta confezionato.
- Non posso, devo consegnare quella traduzione tra tre giorni e devo ancora finire la prima stesura!
Torno a sedermi davanti al computer e aggiungo: - Anzi, se puoi andare a farti un giro, perché io adesso devo lavorare.
- Okay, torno per le sei, usciamo alle sette - dice passando le dita fra i lunghi capelli lisciati con la piastra e colorati con lo shatush, una roba tipo meches con cui ha ammorbato chiunque per mesi.
- Aspetta, ma con chi usciamo?
- Amici miei.
- Che tipo di amici? Mica che quello meno invasato ha fatto il cammino di Santiago tre volte, spero.
- No, amici normali.
- E dove andiamo? Non sarà un incontro di preghiera o un’adorazione eucaristica o che ne so?
- Guarda che se non vuoi venire puoi restare a casa, mica ti costringo.
Da quando Iacopo mi ha mollata non sono più uscita con nessuno, e non dico per rimorchiare, ma nemmeno per una pizza o un cinema con un’amica. È che sono stata così sopraffatta, nell’ordine, dalla disperazione, dalla tristezza, poi ancora dalla disperazione e infine dal trasloco, dal lavoro e poi ancora dalla disperazione, ma questa volta per la traduzione del romanzo porno-soft, erotico ma senza essere volgare, insomma, dalla traduzione di quel libro insulso da consegnare in tempi da record, perché il piano editoriale, il direttore editoriale, la filiera editoriale, la crisi editoriale.
- No, okay, vengo. Basta che mi assicuri che si vada in un posto normale, con gente normale, a mangiare normale. Ho davvero bisogno di normalità.
- Sì, tutto normale. Fatti una doccia prima che torni. Altrimenti la meno normale sarai tu. - Poi scuote il capo e aggiunge: - Santo cielo come sei ridotta. Aveva ragione la mamma a essere preoccupata.
Mi sposto per lasciarla passare, ma invece di dirigersi verso l’ingresso, per andarsene, va all’angolo cottura, apre l’anta sotto al lavandino, prende il sacchetto delle immondizie e lo chiude.
- Non so se sia tu o questa roba a puzzare così. - E se ne va, portando con sé la spazzatura.
- Grazie - ribatto gentile. Leggi sarcastica.
Che cosa ne pensate?
BUONE LETTURE,