Nell'appuntamento di oggi con la rubrica Spotlight on... dedicata ai romanzi di autori italiani esordienti o autopubblicati, vorrei parlarvi di MI SEI CAPITATA PER CASO di Diana Malaspina. Si tratta di un divertente romanzo rosa in cui l'autrice affronta il tema della gravidanza, sfatando tutti i luoghi comuni sull'argomento, con un pizzico di romanticismo in più.
Informazioni e trama
Autore: Diana Malaspina
Data di pubblicazione: 28 gennaio 2016
Lingua: Italiano
TRAMA:
Pamela è all’ultimo anno di un Dottorato di Ricerca quando scopre di essere incinta. Con la tesi da scrivere, l’incertezza di un contratto futuro e l’assenza del padre del bambino che ormai vive dall’altra parte dell’oceano è evidente che non era proprio il momento ideale per diventare madre. Rifiutando di farsi scoraggiare, Pamela affronterà questa avventura con la sua potente arma segreta, un’ innata ironia, e con una forza nuova che piano piano la trasformerà in una mamma. In questo viaggio però, Pamela non è sola. Amiche leali ed esilaranti e una giovanissima futura nonna,bionda e svampita solo in apparenza, la affiancheranno e la aiuteranno a non farsi sopraffare dalla paura di non farcela e dal senso di responsabilità terrorizzante nei confronti di una figlia che si trova a tenere tra le braccia, sola, ancora “ospite” in una casa dei genitori che non sente più completamente sua. A sconvolgere ancora di più la vita di Pamela ci si mette anche l'amore. Nel peggior momento possibile della sua vita sentimentale, la protagonista incontrerà un uomo capace di scoprire tutte le sue carte. Si farà strada nel suo cuore e, con la dolcezza di un uomo che sa di aver trovato la donna della sua vita, le mostrerà fino a che punto può essere vero che l’amore ti accetta per ciò che sei e che si può amare una persona solo interamente, desiderando con lei anche tutto ciò che fa parte della sua vita.
[Capitolo 1 - Mi Sei Capitata per caso di Diana Malaspina]
Si faceva chiamare Carmen, ma era un nome finto quanto il colore dei suo capelli – una gradazione di rosso tiziano intenso che faceva male agli occhi se lo fissavi troppo di prima mattina. Il bar che gestiva, non a caso, si chiamava “Nom de Plume”. Aveva una pessima acustica ma, dal tavolo giusto e sforzandosi un pochino, si potevano ascoltare per tutta la giornata bellissime arie d’opera: si partiva con Wagner alle sette di mattina – tanto, come sosteneva Carmen, prima delle undici italiano o tedesco sono più o meno la stessa cosa – per passare da Verdi verso l’ora di pranzo e terminare con un aperitivo a base di Rossini e Puccini, per suicidarsi insieme a Tosca con la dovuta quantità di prosecco nello stomaco.
Era il “mio” bar.
Ognuno ha un proprio bar: un posto che, se non ti fermi lì mentre vai a lavorare, la giornata inizia male, davvero male. Un posto che, con il suo aroma di caffè e quella particolare disposizione delle brioche nella vetrina, il lunedì mattina ti dice “vai, ce la puoi fare”.
Nel mio caso diceva “vai, gggiuoia” con una carezza materna al profumo di crema per le mani, uno sventolio di foulard di seta e un inconfondibile ed affettato accento calabrese: Carmen. Sentirla chiamare “tesoro mio” un ignaro barone universitario mentre gli serviva una fetta di torta, con quel palco di tette in bella vista traboccanti da una scollatura da pin up anni 50… beh, quella scena da sola valeva l’attesa del caffè. Si, perché “a casa di Carmen” il caffè era quello della moka che ti costringeva a sederti, fermare un attimo la tua frenetica giornata, leggerti due pagine di giornale e magari mangiarti una fetta di torta facendo una colazione degna di chiamarsi tale. O, considerata lo spessore di quelle fette di torta, degna di ciò che una nonna meridionale intende con la parola “colazione”.
Era il mio bar, ma era anche quello di tanti altri precari universitari di stanza nella zona che Carmen sfamava con panini rigurgitanti mortadella e riscaldava con tazze di cioccolata calda (ancora da stabilire se fossero davvero tazze o piuttosto antichi vasi da notte riutilizzati in modo originale) nelle buie e nebbiose giornate invernali di Bologna.
Era il bar in cui non avevi bisogno di ordinare perché Carmen capiva al volo se avevi bisogno di qualcosa di caldo o piuttosto di qualcosa di alcolico.
È stato il primo luogo in cui ho ammesso a me stessa (e a Carmen) di essere incinta.
Davanti alla fetta di torta al cioccolato con tanto di candelina che Carmen mi aveva messo davanti per festeggiare il mio compleanno, invece di sorridere e soffiare, avevo sganciato la bomba.
Houston, abbiamo un problema.
Un problema di quelli che si risolvono in nove mesi.
Che cosa ne pensate?
Se lo avete letto fatemi sapere il vostro parere!
Buone Letture,